top of page

      MAESTRO GIOVANNI LEUZZI - FINE GIUGNO 1997      

La “skòla”-la scuòla-la escuela -l’école -the school-die schule

 

La scuola che c’è, la scuola che non c’è (più).

di Aldo Galeano

 

 

foto: persone sotto il gazebo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

             

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(fine) Giugno 1997. La scuola “a colori”. Domenico Maranò (detto Mincucciu lu barbier’) va  in pensione. Sono presenti: Maria Antonietta Corrente, Caterina Torrente, Adelma De Salve, Maria Rosaria Marinelli, Giovanni Fasciano, Monerite Onofrio, Raffaele Matichecchia, Pasquale Marinelli, Teresa Quaranta, Adriana Colucci, Gianna Nigro, Loredana Carrieri, Pino Marinelli, Maria Vincenza Pintus, Alfonso Tatullo, (…), Anna Merico, Maria Pastore, Franca Pisanelli, Ilde Balducci, (di spalle) Anna Maria Castelli, Domenico Maranò.  

 

Giovanni Liuzzi: un maestro “inadempiente”.

 

PREMESSA

 

            Correva l’anno scolastico 1950/51, eravamo nell’aula detta di “Vitucciu Cavallu”, posta all’incrocio tra via G.do Mameli e via F.co P.lo Lotta; si salivano almeno 5-6 gradini; c’era una finestra che dava su via F. P. Lotta che serviva per comunicare esterno verso interno e viceversa. Non erano rare le occasioni in cui sporgeva la testa di qualche genitore che immancabilmente faceva rintronare nell’aula il solito richiamo all’insegnante: “Pressò, quanna li vol’ tall’ “. Era chiaro il riferimento all’uso della bacchetta. Altre volte si affacciava Bruno Parabita, il quale per la vivacità dell’intelligenza e della memoria, non potendo effettuare lavori fisici perché zoppicava da una gamba, allora si divertiva, grandicello, a fare il giro delle aule “sparse” e ad imboccare con le risposte azzeccate i malcapitati vicini alla cattedra e sottoposti all’interrogazione. Quell’anno, però, in concreto non ci furono mai episodi da bacchetta, se non ricordo male, sia perché l’insegnante era un maestro di quelli geneticamente nati per essere maestri, sia perché per una buona parte dell’anno, per la prima volta nel corso degli studi elementari, era comparso un gruppo di una decina di ragazze. La classe, come al solito, era numerosa; c’erano ripetenti che per poco non ricevevano la cartolina per la visita di leva. La presenza delle ragazze mitigava le spinte all’uso della forza; tra maschietti è normale misurarsi in scontri che partono per essere verbali e poi arrivano allo scontro fisico. Purtroppo la novità dovuta alla presenza delle alunne durò poco perché l’arrivo della maestra De Bartolo che  non era di Grottaglie ma giungeva da Grottaglie fece smorzare tutti gli entusiasmi quando un mattino giunse l’invito, rivolto alle ragazze, di andare nella classe della De Bartolo, messa in altra parte del paese.

            Per noi ritornò il clima abituale fatto di gerarchie, di bravi, meno bravi e assolutamente non bravi; la fine dell’anno vide due bocciati, con sommo rammarico, perché ormai si era giunti al punto da socializzare in perfetta sintonia. Io avevo capito perfettamente che non dovevo più portare la scatola con i gelati di schiuma dolce soffiata con la pretesa di venderli ai compagni, i quali, molto più opportunamente, me li “fregavano” da sotto il banco quando ci si allontanava un momento per andare alla cattedra o quando giungeva il momento del “bisognino” che irrevocabilmente trovava riparo nella vicina zona del canale adeguatamente predisposta a raccogliere i “bisogni” di tanti. Era anche il posto prossimo al campo di calcio posto dove ora sta un deposito di detriti dei fratelli Strusi (Giuseppe, Paolo, Daniele) e quindi valeva come riferimento per il gioco quando si usciva con l’intera classe per riprendersi dalle “fatiche” dello studio e anche come location  per le foto ricordo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

foto in banco e nero con scolari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

26/06/1951 V classe,– insegnante Giovanni Liuzzi (Si riconoscono: Ciro Strusi, Mimmo ( da Domenico) Arcadio, Aldo Galeano (t’ Jancilu Calianu), Mino Marinelli (t’ mienezu’chilu), Mario Giannetta, Mimino Marinelli (ti scarpinu), Antonio Marinelli (t’lu Jattuddu), Biagio Quaranta, Titino Ladogana (ti Michele la uàrdia), Pietro Cometa, Barsanofio Galeandro, Luigi Monteleone (zump-zump), GIOVANNI LIUZZI, Vito Lombardi, Antonio Lanza, Giovanni Parabita, Gabriele Matichecchia, Mino Strusi (ti piscicazun’), Salvatore Sergio (t’ sciacquetta), Angelo Marinelli (t’lu fisck’ttaru), Ciro Arcadio, Pietro Matichecchia, (accovacciati) Angelo Marinelli (detto Ninicchiu), Giovanni Fornaro (ti ziu Bbann’), Ciro Manica (f’rlò), Michele Lanza, Mimino Fiorillo (lu sciardiniér’).

 

            La classe, come premettevo, era formata da alunni di tutte le età; sarebbe dovuta essere quella della leva del ’40 ma non mancavano ragazzi del ’36 e perfino del ’35. Fra essi erano presenti, come pratica, tutti gli sport in voga all’epoca: l’ puzzedd’, lu pallon’, l’ patt’n’ a rotell’, la bicicletta, l’ giocator’, lu musu, lu saltabenzina, lu scaffu (suono sc di sciare), l’ cart’ (carte da gioco napoletane), la corsa (a piedi o in bicicletta); erano sempre in auge i giochi di abilità, di qualunque tipo. Quando i maestri si mettevano d’accordo per fare l’uscita che corrispondeva più ad una scampagnata, i luoghi deputati a contenere tutte le classi erano lu puzzu t’l’acqua bona ( sulla via per la Jedda, dove ora c’è l’antenna “telefonica”) ma anche le macchie della Palombara che non davano problemi di spazio. L’unico sacrificio era quello di Maria Fina che da bidella unica e sola, doveva fare il giro delle classi per allertare gli insegnanti che, prima degli alunni, non vedevano l’ora di uscire dalle “aule” in genere buie e tenebrose. A me toccava, purtroppo, l’ingrato compito di fermarmi a casa lungo il passaggio per l’uscita, in modo da rispondere concretamente alle domande fameliche degli insegnanti i quali non dimenticavano mai che ero figlio del salumiere posto, col negozio di generi alimentari, guarda caso lungo il tragitto.

 

 

 

 

 

 

 

foto in bianco e nero con processione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          14 sett. 1965. Sullo sfondo, portone d’ingresso del negozio di generi alimentari di Angelo Galeano. La processione per la festa del Crocifisso, svolta da via G. Mazzini verso via Trieste.

 

IL TEMA

 

            Uno dei lavori scolastici più ingrati era quello di dover fare il tema d’italiano che in quinta era da fare pure agli esami di licenza di fine anno e, quindi, per noi ragazzi assumeva una importanza particolare, specie per quelli per i quali si prospettava la ventura di dover affrontare, dopo quelli di fine anno, anche quelli di ammissione alla scuola media; senza il superamento dei quali la scuola media diventava una mera chimera. Tra quelli che “aspiravano” c’ero io non tanto perché ci tenessi quanto perché mia madre avvezza a considerare che l’occupazione lavorativa, nella vita, poteva anche essere diversa da quella dedita all’agricoltura o da quella dedita alle cave e/o alla lavorazione della pietra presenti in paese, perché ispirata da modelli diversi (professionisti delle varie branche presenti in numero notevolissimo nel suo paese d’origine, Grottaglie), pur non essendo in possesso di titoli di studio superiori alla licenza di terza elementare, amava leggere, prediligeva l’uso della lingua italiana, amava, alla sua maniera, la cultura e, quindi desiderava che i  figli fossero istruiti ad un livello superiore a quello “corrente” (di quinta elementare). Per lei valevano i modelli e le scuole presenti su Grottaglie: l’istituto d’arte, detto comunemente “la ceramica” e la scuola media (“Pignatelli”), allora alloggiata presso il complesso del Carmine con ingresso dalla parte della piazzetta posta alle spalle della chiesa. Altri compagni si sarebbero riversati verso gli istituti tecnici di Taranto, il “Righi” per antonomasia. Il Righi, però, rappresentava il livello corrispondente ad uno dei licei dell’epoca e perciò il triennio che lo precedeva era  quello della scuola di avviamento industriale, corrispondente alla “Tahon di Revel” posta nello stesso complesso scolastico e chiamata comunemente lu Revèl (vedi bellissima descrizione di Giacinto Peluso). A me sarebbe piaciuto frequentare quella scuola non foss’altro perché non c’erano gli esami d’ammissione e anche perché vedevo con simpatia l’idea di seguire una scuola che consentiva di imparare a fare lavori da officina, in legno o in ferro. Mio padre, invece, voleva che seguissi gli studi di enologia. Ma tant’è! Altra improba fatica era quella di prepararsi per benino agli esami di ammissione e, quindi, si ricorreva ad un corso preparatorio supplementare già nel corso della frequenza della scuola elementare; mia madre mi avviò alle lezioni da Francesco Arcadio (divenuto poi segretario comunale ed ora benefattore della Biblioteca Popolare del Gruppo Anonimo ’74 perché fa giungere benevolmente, pur essendo da anni in pensione, tutti gli articoli giuridico-amministrativi che pubblica in riviste nazionali riguardanti la materia comunale, essendo diventato in quel di Padova segretario generale della Provincia, giudice tributario e revisore contabile. Di quel periodo ricordo volentieri quando “studiavamo” in estate nel giardino della famiglia Lotta, essendo suo padre amministratore dei beni di quella famiglia. Imponente era l’albero di gelso posto al centro del giardino e lussureggianti tutte le altre piante ora sconfitte dall’incuria e dalla invasione prima della C.C.C. e poi da altri. Altrettanto lieto è il ricordo della presenza degli amici del “professore” per gli scherzi e le facezie che combinavano tra di loro soprattutto con le espressioni di lingua tedesca che attribuivano al suo linguaggio abituale (fra queste c’era: “zum”); gli amici più intimi erano, “Mimino” Spagnulo e Ciro Grottoli, poi, divenuti insigni professionisti.

            Ritornando alle preoccupazioni per i temi e per il tema, c’era da farsi venire l’angoscia perché gli esami di ammissione sarebbero consistiti nell’esame su italiano e matematica con scritto e orale, e storia e geografia solo orale; come potevo io aspirare a fare bene un tema in buona lingua italiana quando la lingua universale per noi era il dialetto, e, specialmente quello parlato da mia zia Anna Giuditta e zia Rosa che era tipicamente e nobilmente ottocentesco, che, se conosciuto oggi, darebbe luogo al Nobel della lingua italiana arcaica e ricca di suggestioni derivanti dalle lingue che avevano dato vigore al nostro dialetto: greco e latino in primis, ma anche francese, tedesco, inglese (specie dopo la venuta degli Alleati); la mia più grande cultura era di ordine fumettistico: “Capitan Miki”, “L’intrepido”, “Primo Carnera”, “Buffalo Bill” comprati prima all’edicola* t’lu Cigghes’ (alias Antonio Gasparro, daziere, per conto dell’impresa Lovelli di Massafra, nel localetto di via Roma  quasi di fianco a quello dove  sta la scritta sul muro “sfiato mt 3,60“), poi da Peppino Pacifico quando avviò l’edicola di giornali ritirandoli scrupolosamente con la bicicletta dalla stazione ferroviaria, ogni mattina; pertanto le aspettative di mia madre andavano deluse perché, immancabilmente, i maestri dicevano: “Non deve leggere i fumetti, non sono scritti in buona lingua italiana!!!”    

                                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Buffalo Bill: dal fumetto alla storia.

Per gentile concessione di Luigi VELLUCCI

“I Butteri – Buffalo Bill – Il West”

Edizioni Pugliesi

 

 

 

 

D’altronde, ricordo ancora che in seconda elementare il professore Palazzo mi corresse coltello al posto di  cortello; bicicletta al posto di  blicichetta; quella volta eravamo nell’aula di proprietà di Cosimino Galeone dove ora abita Gilda Marinelli (t’la Cavallera). Erano situazioni ricorrenti. E, allora, il tema diventava una prova difficile e complicata.

 

 

IL FATTO

 

Il maestro, o pressòr’, che dir si voglia, era Giovanni Leuzzi, proveniente da Carosino come tanti altri; all’epoca l’unico e solo maestro del paese era Michele Matichecchia; da Carosino provenivano anche Franco Palazzo, Maria Frascella, Angelo Lentini, Pietro Quaranta, Erminio Fella, tutti giungevano a Monteiasi rigorosamente in bicicletta; solo Lentini si permise prima il “mosquito”, poi, il “cucciolo”, infine la “topolino”; suo padre era amministratore dei D’ayala a San Pietro di Marrese, quindi poteva evidentemente consentire al figlio di differenziarsi in comodità. Una volta, mentre il maestro Lentini si avviava con la sua Topolino, noi lo inseguivamo sulle fiancate per curiosità e Llucciu (Paolo Ciura), per fare la bravata, mise il piede sotto il copertone lasciando passare sopra la ruota: non ebbe nessuna conseguenza. I maestri “ciclisti” erano soliti fare lo sprint d’arrivo quando giungevano all’altezza della casa di Enrico Leuci; chi arrivava per primo all’aula “magna” posta in piazza Vitt. Emanuele II, poi piazza Maria Immacolata, ne risultava vincitore, almeno per quel giorno; a Franco Palazzo, nello sprint finale, capitò di cadere e di riportare delle escoriazioni che bastarono per rendere felici noi alunni che per qualche giorno potevamo dire alle famiglie:” Lu pressor’ no’ ci’à vinutu”. Le supplenze richiedevano il tempo di qualche giorno prima che gli uffici addetti della direzione didattica, posta a Martina Franca, vi provvedessero; qualche volta le classi venivano “assemblate” tra di loro ma, ahimè, lo spazio delle cosiddette aule non consentiva grandi lussi, bisognava pure lasciare un po’ di spazio ai topi che ne avevano tutto il diritto. Rare volte venivano dei supplenti volontari perché aspiranti maestri o già diplomati; era la volta di Ciccio Guida, di Antonietta De Siati, di  Angela Spagnulo; quando, però, noi si annusava l’aria di assenza del maestro la prima delle cose che venivano in mente era di correre furtivamente verso casa per recarsi in campagna con la bici con la scusa di portare qualcosa ai familiari al lavoro (pucce, focacce , appena sfornate, o altro) o di restare in casa per dedicarsi ai giochi preferiti.            Ebbene il caro e, spero ancora non compianto, prof. Leuzzi non si decideva mai a riportare da casa i quaderni col tema fatto in classe. Al mattino, quando si giungeva a scuola, dapprima cominciò col dire “Non l’ho ancora corretto!”, dopo un po’ di giorni era fisso il ritornello “L’ho dimenticato a casa”. Tra di noi cresceva la curiosità e l’ansia di conoscere il voto, assolutamente di tipo numerico, da zero a dieci. Quando eravamo ben stanchi di sentire giustificazioni sia pure rispettabili, giunse il momento di dire basta e di ricorrere alle proposte alternative.            “Pressò, veniamo noi a prenderli!”, avanzò qualcuno; un altro:” Perché non vai a prenderli adesso?!”.             La risposta:” Come faccio a lasciare la classe!”.             Un altro:”Allora andiamo noi!”.             Di rimando:” Scherzate!”            “No, pressò, ca nu sapimu scè cu la bicicletta!”            “Facciamo una cosa, se proprio ci tenete, mandiamo due di voi!!”            “Sì, pressò, sì, mandiamo Vittorio (Leone) e …”            “E … Galeano!”, ingiunse il maestro.            “Sì, evviva!”            “Allora, mi raccomando, andate a Carosino, in via (Enrico) Dandolo n° 14, subito dopo la piazza, a destra!”            “Va bene, pressò!”            Ci recammo alle rispettive case, di corsa, prendemmo le biciclette, io dall’attuale via G. Mazzini, Vittorio dal vico dell’Oratorio dove abitava, (ora c’è Immacolata Sergio-Leone con i figli); ci dirigemmo verso Carosino con la strada ancora semplicemente ricoperta di “breccia” (calcare duro ridotto in pietra col martello da scalpellino), raggiungemmo la casa del “prof.” al primo piano di via Dandolo, 14; la signora Leuzzi si meravigliò enormemente che a bussare al portoncino fossero stati due alunni del marito; passata la meraviglia, si recò subito a prendere i quaderni messi, poi, da noi, scrupolosamente, sul portabagagli posteriore della bici e rientrammo. Per la strada fummo veloci ma senza gareggiare. Vittorio era insuperabile in tutti gli sport; d’altro canto io mi ero già misurato con lui in una gara fra tanti: ponte del Cimitero-largo Mulino; due alla volta; risultai secondo dopo Vittorio; per me fu una grande soddisfazione; ero stato secondo dopo il primo in assoluto.            Portammo i quaderni in classe ma, ahimè, la gioia non fu per tutti. Erano fioccati i quattro e i cinque. Non ricordo se per l’occasione il mio fosse stato da sei o meno di sei; di certo c’è che fui promosso ma agli esami di ammissione mi portai a settembre l’italiano. Quando mia madre andò a chiedere al preside incaricato, don Pietro Trani, sacerdote, perché mai non fossi stato promosso, quegli rispose: “Deve migliorare molto, ha scritto in un modo assolutamente scorretto; in casa come parla?”            Mia madre capì tutto.            *edicola: il primo giornalaio del paese che io ricordi era stato Antonio Gasparro, con la rivendita collocata nella sede dell’ufficio da daziere. Erano pochi metri quadri e posati sulle sedie stavano i pochi giornali in vendita. Io conoscevo bene il posto e il titolare perché andavo di frequente a portare le bollette del dazio che accompagnavano le merci (dei negozi) in uscita o in entrata dai paesi. Un mattino mi trovai a passare davanti all’edicola e, come al solito, mi misi a curiosare. Le fiancate interne del portoncino erano ricoperte di testate puntate con le mollette dei panni allo spago legato a dei chiodi messi ai lati. Fui colpito dalla copertina de “La Domenica del Corriere” che riportava, nell’illustrazione di Walter Molino un avvenimento tragico; era disegnato un aereo che era andato a battere contro un campanile. La didascalia spiegava che si trattava dell’aereo delle linee ALI, il quale il 4 maggio (1949) era andato a causa della nebbia, contro il campanile della basilica di Superga provocando la morte di tutti i passeggeri; quei passeggeri erano di altissimo valore sportivo, calcistico nel caso particolare, perché componevano, con tutti i dirigenti, la squadra del Torino che si era portata a Lisbona per una amichevole con i lusitani, dovendo Josè Ferreira, allenatore di quella squadra, dare l’addio al calcio. Taranto, all’epoca, dava molto di più al calcio; militava tranquillamente in serie B con l’Arsenal-Taranto e volle ricordare quel triste evento assegnando allo stadio il nome di Valentino Mazzola che era stato tra i periti. Il 4 maggio prossimo vedrà il 60° di quella tragedia. A proposito della quale ricordo ancora che, quando mio padre in uno dei viaggi a Taranto, mi portò a visitare il cimitero “San Brunone”, subito dopo il cancello d’ingresso stavano sistemate a terra le foto di tutti i giocatori contornate da mazzi di fiori e lumini di cera.

 

 

cartolina il grande torino                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il grande “Torino” e la Basilica di Superga. (Da una cartolina di Salvatore Marinelli)                            

 

 

 

 

 

foto in bianco e nero con calciatori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALBA ED AURORA: una classe, due squadre di calcio.

 

***************************************

 

 

 

        

 

 

foto persona in mezzo alle piante

 

 

 

 

 

                                                                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella foto scattata da Pietro Cometa (di Giovanni), Aldo Galeano sul terreno della famiglia Cupri dove rebbe sorto l’edificio “Pascoli”. (epoca presunta: 1957)

 

          **************************************

           

                 

 

 

foto in bianco e nero con adulti nei banchi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edificio “Pascoli” -scuola popolare ’60-’61. Sono riconoscibili da sin.: Nicola Manica, Leonardo Minunno, la maestra Elvira Pacenza Petraroli, Giuseppe Ciura, Giovanni Stasi, Giovanni Quaranta, Domenico Cantoro, Leonardo Chirico,  (dietro) Michele Cervellera (detto musulinu), Cosimo Spagnulo (detto lu cichignu), Cosimo Matichecchia (di Grazia).

 

 

                                               Foto di classi delle aule “sparse”:

 

 

                   

 

 

 

foto di classe 3 giugno 1954

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Michele Matichecchia: decano degli insegnanti di scuola elementare del paese;

            poi, anche sacerdote. (Classe V – 3 giugno 1954)

                                                                                                                     

 

 

 

 

 

foto in bianco e nero con bambine in grembiule

 

 

 

 

 

 

   

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Classe IV femminile della maestra Fornaro che veniva con la “Lambretta” da Buffoluto. L’aula è quella che era posta nella strettoia tra la ex-Casa Comunale e il tratto che porta alla piazzetta Don Bruno Falloni. Quella porta è stata murata a seguito dei lavori per cui l’intera struttura (ex-Casa Comunale) fu dichiarata inagibile a seguito del tentativo (avventato) di mettere in comunicazione dall’interno i due ambienti; così come, poi, realizzato e come risulta a tutt’oggi.

            (epoca: a. sc. 1955-56)

 

 

 

 

 

 

 

 

foto in bianco e nero con bambini

in grembiule e creèpa nel mezzo

Classe IV maschile in piazza Maria Immacolata. (epoca: 1953 ?) da sin. 4° Tonino Paladino di Francesco, 7° Ciro Galeano, 8° Rosario Quarta, 11° Antonio Paladino di Pasqualino; in p.p.: 2° Antonio Corona, 4° Pino Nigro di Alfonso, penultimo Marcello Lacorte.

 

 

APPENDICE

 

“La luna nel rio”

 

            Nei primi anni ’50 la RAI-RADIOTELEVISIONE ITALIANA, allora E.R.I. (Ente Radiofonico Italiano, la TV si avvia il 3 gennaio del 1954), si presentava in tutti i comuni d’Italia con un mezzo attrezzato per le riprese e le trasmissioni radiofoniche in diretta a livello regionale. Pertanto, allorchè veniva annunciato nei singoli paesi che ci sarebbe stata la “radio-squadra”, questi si preparavano alla meglio per mandare in onda quanto li potesse rappresentare e contraddistinguere rispetto agli altri paesi. Il che naturalmente, oltre i canti popolari, l’esibizione di qualcuno del paese che sapesse tracciare il profilo della comunità, coinvolgeva le scuole. I ragazzi, con i rispettivi docenti, preparavano poesie, storielle e canti. A ricordo di Salvatore Marinelli, di Saverio “di Tavarone”, alunno di quarta elementare, fu presentata dalla sua classe, auspice l’ins. Laneve, una canzone allora in voga “La luna nel rio”, sfruttandone il testo musicale e adattandone quello letterario al fine di far sapere a tutti che Monteiasi aveva bisogno di un edificio scolastico.

 

                                               La luna nel rio (adattata)

 

            Siamo bimbi di Monteiasi

            Ci presentiam                                                           

            Alunni di tutte le scuole                                           

            Elementar                                                                 

            Ringraziamo la radiosquadra                                    

            Venuta qua

            E un saluto caro a tutti quanti

            Vogliamo dar

            Siamo bimbi gai e contenti

            Perché nel cuor

            Abbiamo un grande legame

            Un grande amor

            Pur se piccolo è il paesello

            In cui viviam

            Figli d’Italia noi siam

            Tutti fratelli coi bimbi italian.

 

Un saluto al direttor

Ai maestri nei nostri cuor

Al Comune che ci darà il lavor

L’edificio vogliamo qua

L’aule sparse abbandonar

La scuola più bella ancor diverrà

 

 

                                   La luna nel rio (autentica)

 

Chi gettò la luna nel rio, chi la gettò?

La luna dell’amor mio, chi la gettò?

Una grande rete di stelle io prenderò

E dal profondo del rio l’amore mio mio ripescherò.

E dal profondo del rio l’amore mio ripescherò.

            Gira e volta se vuoi girar

            Ma l’amore non puoi fermar

            Se lo perdi lo tornerai ad incontrar. (bis)

 

 

 

 

 

 

 

foto scolaresca con crocifisso

 

 

 

 

 

 

 

                   .  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aula “magna” posta nel Palazzo Ducale. Ins. Michele Matichecchia classe V (epoca: 1952-’53)

 

 

 

 

 

 

 

foto scolaresca in prospettiva

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scuola Pascoli – rientro dopo celebrazioni IV Novembre (epoca probabile: 1966) In primo piano Cosimo Ciura, di spalle Don Ciro Tripiedi, a destra il d.d. Locritani.

 

 

                                                                       Aldo Galeano

 

Monteiasi, 20 febbraio 2009

bottom of page